Coronavirus. è lui il nemico invisibile?

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È davvero il Covid-19 il nostro nemico? O il nemico invisibile che tentiamo di combattere siamo proprio noi stessi?

coronavirusDomanda apparentemente assurda, lo so! Eppure, l’arrivo inatteso di questo virus ci ha costretto a metterci a nudo, sbattendoci in faccia tutte le fragilità che caratterizzano la vita quotidiana di ognuno di noi e del nostro intero sistema sociale.

Stiamo vivendo una rivoluzione.

E se le chiamano rivoluzioni un motivo c’è. Revolutio-onis, dal latino, sta per “rivolgimento, ritorno”.

Presto o tardi, tornano sempre. Sovvertono tutto in modo violento e costringono a ricominciare daccapo, guardando in faccia realtà che si ignoravano o si volevano ignorare.

 

Mi viene in mente l’ispettore Javert de I Miserabili, di Victor Hugo. Un uomo capace di vivere solo e unicamente nel sistema e che, messo di fronte alla propria impotenza, non trova poi modo di uscirne se non togliendosi la vita.

E noi, come usciremo da questo dramma? Pur non arrivando a mezzi così estremi (chiaro), saremo in grado di conciliare due parti di una stessa medaglia? Perché per cambiare il mondo là fuori, serve prima fare i conti con se stessi e riconoscere ciò che non va.

 

Il Coronavirus è la miccia esplosiva di questo cambiamento radicale, è causa di dolore e sofferenza, tuttavia, c’è da chiedersi: “contro chi stiamo combattendo? Contro di lui, o contro la nostra inadeguatezza?”

Siamo di fronte al Black Swan dei nostri giorni, il cosiddetto cigno nero, quell’evento inaspettato e imprevedibile capace di sconvolgere l’ordine delle cose. L’arrivo di questa pandemia ci ha costretto a mettere in discussione ogni caposaldo di un sistema che fino a ieri ritenevamo solido e collaudato: il sistema sanitario, industriale, socio-economico… non ha risparmiato nulla.

Al tempo stesso, non passa giorno senza che si torni a dubitare di tutto.

Viviamo con la netta impressione che ogni azione adottata per fronteggiarlo sia inappropriata o insufficiente o inutile. Si continua a sperare di poter tornare indietro, alla stabilità di pochi mesi addietro, rimpiangendo paradossalmente una vita che ritenevamo inadeguata e davamo per scontata.

A ogni modo, indietro non si torna. Si può solo andare avanti.

Pertanto c’è da interrogarsi su cosa si prospetti all’orizzonte.

“Quando il peggio sarà passato ricominceremo a vivere”, si pensa.

Eppure, il peggio deve ancora arrivare. Certo il virus passerà prima o poi, ma a quel punto si dovranno fare i conti con quanto si sarà lasciato alle spalle. E se adesso l’appello comune è l’invito a restare in casa, dopo sarà quello a ricominciare, per ricostruire un sistema che non c’è più.

Passato questo periodo nero, noi non saremo più gli stessi e non lo sarà nemmeno il mondo che conosciamo. Perché quello che stiamo vivendo non è un capitolo di storia come tanti, ma di quelli che segnano il passaggio da un’epoca a un’altra.

Davanti a noi c’è il cambiamento, quello vero. Quale strada prenderà, nessuno può saperlo. Speriamo solo che sarà quella giusta.

Allora, e solo allora, scopriremo se a differenza dell’ispettore Javert sapremo reinventarci.

 

Festa della Repubblica: Ma siamo sicuri?

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2 giugno. Si festeggia la nascita della Repubblica. O almeno così si dice.

Ma siamo sicuri che ci sia da festeggiare?

Mi chiedo se oggi, mentre depositeranno la solita corona d’alloro innanzi all’Altare della Patria, il Milite Ignoto non si rivolterà nella tomba, chiedendosi se il suo sacrificio e quello di tanti altri sia valso veramente a qualcosa.

Dopo due guerre mondiali, tre quarti di secolo monarchico e un ventennio fascista… gli italiani sono finalmente liberi di scegliere e, il 2 giugno del 1946, in occasione del referendum istituzionale, dicono “sì” alla Repubblica.

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Prima pagina dell’originale della Costituzione custodito presso l’archivio storico della Presidenza della Repubblica

 

Certo, se ci trovassimo ancora negli anni ottanta, i bei tempi del boom economico, non ci sarebbe di che dire. Ma al giorno d’oggi è forse il caso di voltarsi e fermarsi a riflettere. Perché è vero che indietro non si torna e la storia non si cambia, ma qui c’è qualcosa che non quadra.

Se l’hanno chiamato Repubblica, dal latino “res publica” e cioè “cosa pubblica”, ci sarà pure un motivo, ma in quest’epoca il significato di tale parola è più sfuggente che mai. Ricordiamoci inoltre che lo Stato si fonda su quel pezzo di carta imbrattato d’inchiostro che siamo soliti definire Costituzione della Repubblica Italiana.

Allora forse, prima di fare festa, sarebbe il caso di ricordarsi cosa dice la Costituzione, provare a guardarsi attorno, e chiedersi: “Ma è veramente questo ciò che volevamo?”

 

Certo questi articoli sono belli e a leggerli si prova gusto. Ma se poi si tenta di dare un significato pratico alle parole, si fatica a collocarli nella vita realè. E si che ho tentato, ma più che trovare incoerenze non sono riuscito a fare.

 

 

ART. 1.

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.

La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

 

Capito bene questo articolo? “Fondata sul lavoro” dice la Costituzione. Ma considerando che il lavoro è ormai un essere alieno, sconosciuto a buona parte della popolazione, viene da chiedersi se, nella realtà, l’Italia esista ancora, o sia solo un’illusione nell’immaginario collettivo. Allo stesso livello dell’utopia di un Popolo Sovrano, che al momento di votare è però costretto al gioco delle tre carte, perché ormai gli ideali che distinguevano i partiti sono roba surclassata e, che si voti destra, centro, o sinistra, il risultato non cambia.

 

ART. 3.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

 

Ecco! Questo è interessante. Limitiamoci a fare una risatina sul fatto che tutti siano uguali davanti alla legge e saltiamo a piè pari alla seconda parte. Non credo di essere il solo a pensare che, a incancrenire sempre più il paese, è la stessa politica, i cui rappresentanti (emblemi viventi delle diseguaglianze economico-sociali) continuano ad apportare più danno che beneficio allo sviluppo individuale e collettivo. E allora quale sarebbe il compito della Repubblica? Forse sbarazzarsi della politica, che equivarrebbe ad annientare se stessa?

 

ART. 4.

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

 

Ora… Se ci viene riconosciuto un diritto e noi non ne approfittiamo, vuol dire solo che siamo degli idioti. Come dite? Oh, già! È che giustamente la seconda parte della frase, laddove si parla di promuovere le condizioni che rendano effettivo tale diritto, ai piani alti devono averla dimenticata. Ma posso capirlo. Col regredire del livello culturale e il propagarsi dell’ignoranza, forse oggi non è più facile intuire che la lettera “e” svolge la funzione di congiunzione tra due frasi. Ad ogni modo, noi dimostriamogli di essere superiori e che il nostro dovere lo vogliamo fare fino in fondo (d’altronde ci lasciano anche la scelta). Bisogna progredire. E se il lavoro non c’è, pazienza. Su con lo spirito!

ART. 5.

La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.

 

A questo ci posso credere. Perché il giorno che si dividerà, vorrà dire che i soldi saranno finiti per davvero e i politici cominceranno ad azzuffarsi tra loro per accaparrarsi gli ultimi avanzi. Ma fino ad allora, la Repubblica è, e resterà, “una e indivisibile”.

 

ART. 7.

Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.

 

La Chiesa è sovrana. Okay! Lo Stato… se proprio non vogliamo tener conto delle banche, dei politici corrotti, delle lobby monopolistiche, dei sotterfugi di potere… Va bene, è sovrano anche lo Stato.

 

Insomma, che dire? Quanto vorrei tornare agli anni ottanta, quando le fette di prosciutto sugli occhi le si teneva volentieri, quando il magna-magna dei politici non disgustava nessuno, perché tanto ce n’era per tutti e un occhio lo si chiudeva di buon grado. Eh, sì! Tornerei volentieri indietro e, come me, credo tanti altri. Ma ormai siamo qui e ci si resta. Si può solo andare avanti.

E allora via, celebriamo il 2 giugno, Festa della Repubblica Italiana. Però ricordiamo che quella di oggi non è una semplice celebrazione, ma cronaca, disperazione viva che dilaga tra la gente, per cui decidiamo una volta per tutte cosa celebrare, se una morte o una rinascita. Prendiamoci un istante e ricordiamo gli ideali che l’hanno fatta sorgere questa benedetta Repubblica, perché se abbiamo pagato la Costituzione con vite, sangue e sacrifici, non è certo per ridurla a un inutile pezzo di cartastraccia. È tempo che quelle parole tornino ad aleggiare nell’aria, che si possano di nuovo toccare con mano nella vita di tutti i giorni. Per cui diciamolo a voce alta, diciamolo insieme, diciamolo in tanti: “Sveglia cara Repubblica. Oggi si nasce, non si muore”.

Terremoto. Italia in ginocchio ma più forte di prima

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In questi giorni costellati di lutto, tra devastazione e paura e incertezze, l’Italia, ferita al cuore, ritrova la sua unità nel rendere un ultimo saluto alle innumerevoli vittime del terremoto. La nazione intera si unisce al cordoglio di tutti coloro che, in una sola notte, oltre a perdere parenti e amici, si sono visti privare di case a cui far ritorno; di monumenti, piazze, strade, punti di riferimento; di un vissuto che gli apparteneva e che era parte della propria identità.

maxresdefaultNessuno, se non chi sta vivendo questo dramma, o chi lo ha già vissuto, può realmente capire l’annientamento psicologico che tutto ciò possa comportare. Ad ogni modo, ognuno di noi cerca di adoperasi come può per dare un aiuto, per farsi carico, almeno in parte, di un fardello troppo gravoso. C’è chi porta soccorsi in prima persona, chi fornisce beni di prima necessità ai centri di raccolta, chi fa piccole donazioni. Persino la politica, tutta, da destra a sinistra, ha saputo fare la sua parte, mostrando rispetto, tacendo, evitando lo scarica barile delle responsabilità, mettendo da parte inutili promesse per limitarsi ai fatti concreti. Insomma, in questo momento tragico, ognuno di noi sembra ritrovare una dignità perduta, sentendosi parte di qualcosa che va ben oltre la propria individualità. Improvvisamente, ci si riscopre parte di un Paese che c’è, che esiste, e che amiamo.

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Amatrice. Orologio del campanile segna l’ora della scossa

 

Mentre scrivo questo articolo, è stimato a 281 il numero delle vittime ufficiali. Un numero che tende ad aumentare di ora in ora, anche a causa dei tanti feriti gravi. Sono tante, troppe, le località colpite. Amatrice, Accumoli, Campotosto, Capitignano, Montereale, Pescara del Tronto, sono solo alcuni dei Comuni più sopraffatti. Il panorama è ben più esteso e desolante. Quelle colpite dal sisma, sono intere regioni del centro Italia. E in ognuna, lo sfogo della natura ha causato morti, feriti, sofferenza e danni ingenti. Fra le oltre mille scosse registrate, quella più violenta è stata di magnitudo 6.0 che ha visto Amatrice e Accumoli come epicentro. È parso di assistere alla brutta replica di un film già visto. Il terremoto de L’Aquila del 2009 è ancora ben impresso nella mente di tutti. Cambiano il luogo e la data, ma la storia è la stessa. Vite stroncate, intimità violate, famiglie sul lastrico dalla notte al giorno, disperati che vagano in cerca di una persona cara, “fortunati” estratti vivi dalle macerie. Gente che, nell’impossibilità di riconoscersi in ciò che li accomunava – un luogo di vita comune, un centro abitato, una società – trova il proprio collettivo solo e unicamente nel dolore.

Ormai, con il passare dei giorni, la speranza di trovare ulteriori superstiti va sempre più affievolendosi, perciò, lentamente, la macchina del Sistema si rimette in moto. Si tenta di riattivare i servizi postali, le scuole. Insomma, si comincia a pensare al dopo terremoto, alla ricostruzione. Stime provvisorie lasciano intuire che, tra abitazioni, monumenti e opere d’arte, occorreranno parecchi miliardi per la riqualificazione delle località colpite.

Ad ogni modo, non voglio soffermarmi su questi aspetti. Anzi, vorrei fare un passo indietro. Estrapolare un concetto per fare una riflessione su quanto scritto all’inizio dell’articolo.

Anche se finora non l’ho espresso in modo esplicito, sono sinceramente meravigliato dalle scene di solidarietà alle quali stiamo assistendo. E ne resto meravigliato ogni volta che ciò accade. Di solito siamo abituati a vivere in una società dominata dall’indifferenza e dall’egoismo, dall’intolleranza  per il diverso, dal rancore per chi ci governa e che additiamo come unico responsabile dei nostri disagi. Eppure in questi giorni, fra telegiornali, dibattiti e approfondimenti, questo negativismo incombente sembra svanito di colpo.CqnGEg8WIAAId6N.jpg large Tutto ciò che traspare dallo schermo della tv è lo spirito di solidarietà e condivisione, una generosità innata, un senso di appartenenza comune a tutto e tutti e che, proprio perché non fa distinzione alcuna, rende tutti più forti e liberi. Chissà perché, ma è sempre e solo in momenti come questi che gli italiani smettono di essere vittime e divengono protagonisti. Ma è mai possibile che solo le tragedie siano in grado di risvegliare il nostro orgoglio nazionale? Cos’è che ci rende ciechi di fronte alla vita e che ci ridesta dinnanzi alla morte? E perché mai, nella vita di tutti i giorni, ci si scorda della propria umanità?

Reagire non basta. Dobbiamo imparare a ricordare. Ricordare che l’Italia c’è, esiste, nelle strade e nelle piazze, anche se distrutte, perché l’Italia siamo noi.

G8 di Genova, 15 anni dopo. Per non dimenticare

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In memoria di Carlo Giuliani

A 15 anni di distanza dai tragici eventi di Genova, in occasione del G8 del 2001, sono tanti gli argomenti che potrei affrontare. Dai fatti della scuola Diaz, ai soprusi da parte delle forze di polizia e delle autorità giudiziarie. Dalla perdita di dignità di un’intera nazione, al tema più filosofico di come, ormai, la democrazia non sia altro che un concetto teorico e inapplicabile, un’utopia a cui si continua a credere per mera convenienza.

Tuttavia ho preferito tralasciare tali approfondimenti. In fondo, benché non fossi sul posto in prima persona, quegli eventi li ho vissuti, li ho seguiti come tanti, anche se solo dallo schermo di un televisore. Perciò, piuttosto che riflettere su ricordi lontani, con il rischio di esporre una fredda valutazione oggetiva, ho deciso di pubblicare un racconto che scrissi a suo tempo. Per quanto allora fossi solo uno scrittore in erba, ho ritenuto giusto pubblicare questo post, lasciare spazio al ragazzo che ero allora, per esporre il tutto con la naturalezza e l’ingenuità di chi un’evento lo vive.

Guerrieri metropolitani

Genova, città d’arte e di mare. Pacifica e accogliente fino a qualche giorno prima. Ora, asserragliata dai potenti, barricata da se stessa, luogo di battaglia.

G8! G8! G8!

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Non che di questo G8 me ne fottesse una mazza, ma ormai da giorni non si sentiva parlare d’altro e anche a me era venuto lo sghiribizzo di chiedermi cosa fosse. In televisione continuavano a parlare del fatidico incontro tra i boss della politica mondiale e della massa infuriata degli antiglobalisti, ai quali pareva che la cosa non andasse minimamente a genio. Nessuno, però, sembrava interessato a informare noi altri su cosa trattasse veramente questo G8. Certo, dovevano averne parlato a suo tempo. Ma chi si era perso le prime puntate era fottuto. In TV si dà spazio a quello che fa notizia. E il popolo di Seattle – mai capito perché lo chiamassero così – faceva più notizia del resto.

È così d’altronde che vanno le cose. Bisogna stare al passo con la frenesia del globo, perché nell’attimo che giri lo sguardo ti perdi. Allora ti tocca inseguire quel mondo pazzo che continua a correre e che non ha certo intenzione di fermarsi per te.

Sapevo bene di appartenere a una massa d’ignoranti. Politica, finanza e diritti sociali, non erano la mia materia. Per essere chiari, non ne capivo nulla. Il che non aveva mai costituito un problema. Non abbastanza da scuotermi o spingermi a cambiare. Non me ne importava. Tutto qui. Poi la scintilla. Quel sentirmi preso per il culo dai cronisti, quando con i microfoni in mano si aggiravano per le strade, proprio in cerca dei polli come me: chi di G8 non aveva neanche sentito parlare. Mi ero visto incellofanato e messo in bella mostra su un bancone di macelleria, con lo zeppo del prezzo conficcato tra le cosce. Allora via! Attaccato allo schermo, in cerca di tutto ciò che parlasse di questo cavolo d’incontro, nella speranza di recuperare quanto perso fino a quel momento. E un giorno dopo l’altro, sotto la raffica incessante dei media, ne ero diventato un vero fanatico.

Lo avevo trovato il fascino per la politica, anche se in  un modo tutto mio. Neanche seguissi gli incontri di box. Restavo ogni volta col fiato sospeso, chiedendomi chi l’avrebbe spuntata. Che roba i dibattiti! Tutti propensi a mettere una parolina. Ognuno in attesa di ribattere. E io pronto a prendere quanto veniva detto. Di notizie ne avevo ingurgitate a bizzeffe e, benché non afferrassi il senso molto più di prima, qualcosa nella testa mi era entrata. O almeno credevo.

In un primo momento esultai soddisfatto, convinto stupidamente di aver recuperato il tempo perso. Ma bastò poco per rendermi conto della mia illusione. Cosa potevo aver capito in fondo, se ero incapace di dar ragione a una o all’altra parte? Troppe notizie. Troppi concetti da assimilare. Troppe lingue a dire la propria. E poi tutti cosi bravi a parlare. Tutti professionisti nell’arte del rincoglionimento, che per i poveri cristi come me, con poca cultura alle spalle, non rimaneva che chiedere qui e là a chi ne capiva di più. Quando trovavo un anima pia, disposta a dedicarmi un po’ di tempo, cercavo di capire chi fosse nella mischia a prendermi per il culo. Certo, in guerra ci si difende com’è possibile. Questa guerra fra titani però… dove io ero parte del bottino… si combatteva a mezze frasi e discorsi programmati. Così, da povero ignorante, mi ero rassegnato a non capire un accidenti di quell’impiccio che è la politica. Meglio gli articoli sullo sport, dove tutto appare chiaro, semplice, e non serve sforzarsi per capire.

392225 02: An anti-G8 protester throws a tear gas canister back at police while a car burns nearby during street fighting July 21, 2001 in Genoa, Italy. Several thousand violent protesters battled with police and destroyed property for a second day as G8 leaders met in a heavily guarded palace for their summit. (Photo by Sean Gallup/Getty Images)

D’altronde ormai è passato il tempo di capire. Ora le immagini parlano da sole. Prima era politica. Poi era audience. Adesso… E adesso? Guerriglie urbane che si combattono sullo schermo. O forse no? C’è chi parla di figure misteriose nei retroscena. Di qualche sobillatore che muove le pedine e che nel vedere questi casini ci gode proprio tanto, perché per lui sono la ciliegina sulla torta. Chissà? Forse è anche vero, ma a me non frega più di tanto. Cambierebbe ben poco.

Tutto è iniziato con una manifestazione pacifica. E sembrava proprio che le cose dovessero continuare così. “No alla Violenza!” dicevano gli slogan. Adesso invece le immagini che mostrano… Profetiche le parole dei giorni prima. Il mondo si è capovolto tutt’a un tratto. Ora è la pazzia a dominare. Ragazzi facinorosi riversano la propria rabbia su quanto li circonda. vetrina È ovunque quell’esercito di cavallette. Mentre giro i canali, continuo a chiedermi il perché. Spranghe di ferro, mazze di legno, pietre o bottiglie, tutto va bene per distruggere. Ne osservo incuriosito uno fra tanti, impegnato nel frantumare quel che rimane di una vetrina ormai distrutta da tempo. Che diavolo gli dice la testa? Sono questi i giovani d’oggi? Sembra che gli ideali se li siano persi per strada. Che vogliano combattere solo per gridare al mondo: “Guardami! Ci sono anch’io”.

Gli altri, che forse si ritengono nel giusto per il solo fatto di indossare una divisa, di manganellate ne ammollano anche loro senza tante cerimonie. Li vedi anche avventarsi su una persona stesa in terra, che la forza per alzare la voce non ce l’ha più, e via con i calci, a finire un lavoro lasciato a metà da qualcun altro. E pure se di quella brodaglia non si vuole far parte, qualche generoso ammolla lo stesso un paio di mazzate, senza più un perché. In fondo a far baruffa ci godono anche questi.

An anti-globalization group of protestors make a performance in front of the Italian embassy in central Barcelona, July 24, 2001. The group protested the death of Carlo Giuliani and the actions of the Italian police during the G-8 summit in Genoa last weekend.

 Al di qua dello schermo, penso a qualche ora prima. Me ne vergogno un po’ a dirlo, ma dopo tutti quei timori che c’erano stati… “Al lupo!” si è gridato un giorno dopo l’altro. “Qualche sovvertitore”, si era detto. Lo hanno ripetuto all’infinito quelli dei Tg. Così, mentre speravo per il meglio, il marciume mi era entrato nel sangue, esternando una parte di me che non credevo potesse esistere. Nello schermo della tv, ho visto la mia immagine riflessa al rovescio.

«Me l’hanno promesso!» è esplosa spazientita quest’anima nascosta. «Tafferugli hanno detto. E ora li voglio vedere».

Ve lo immaginate? Mi sono guardato attorno, per paura che qualcuno potesse entrarmi in testa. In quell’attimo lo avrei creduto possibile. Per fortuna ero solo. Eppure mi vergogno ancora per quelle parole, anche se a pronunciarle è stato il tizio nello schermo. Ho cercato una giustificazione qualsiasi, alla fine però ho dovuto arrendermi all’evidenza: una parte di me vede il tutto come un gioco, dove anche il peggiore dei mali sarebbe pura invenzione. Dopotutto, la vita un gioco lo è per davvero. Dove però quando perdi ti incazzi di brutto. Prendi a gridare. E gridi finché non ti stanchi e capisci che a nessuno frega un accidenti se, nella mischia, ci stai per far casino o semplicemente per protesta. Come i poveri sfigati che lì mezzo ci son finiti per caso. Stanno là, come pezzi sparsi su una scacchiera senza regole.

Comodo sul divano di casa, continuo a osservare quanto accade. Tutto quello che agli inizi suscitava scalpore è divenuto routine. Pochi attimi, perché ogni cosa venga inghiottita dal trantran quotidiano. Vetrine sfasciate, insegne abbattute, grida, accuse e minacce, luoghi e persone, un avvicendarsi di scene sempre uguali. Allora l’immagine cambia. Si torna in studio, altrimenti cala l’audience. Mentana fa il suo show, aggiunge particolari, commenta, cerca di ravvivare una scena che ha perso di colore. Sento dire: “Ci sono appena giunte le voci…” o “Sembra che un gruppo di ragazzi…” Poi l’immagine cambia di nuovo per tornare sul campo di battaglia, ma stavolta, inquadrata a tutto schermo, c’è la faccia dell’inviato. Le sue parole tornano a stuzzicare la mia curiosità. Almeno di quella parte di me che ci sguazza in storie del genere.

«I tumulti non sembrano arrestarsi», dice. «Pare anzi che stiano prendendo il via anche in questa parte della città».

Alle sue spalle, in lontananza, si vedono i ragazzi armarsi di quel che trovano. Lanciano oggetti di ogni tipo. Le forze dell’ordine, in tutta risposta, partono alla carica e ammollano manganellate e calci e pugni.

«In fondo se ci godono loro, nel darsele di santa ragione, che si ammazzino pure!» dico a voce alta.

Giusto il tempo di terminare la frase. E dallo schermo spunta un ragazzo steso in terra. Ha il volto coperto da un passamontagna e la testa in una pozza di sangue. g8-giuliani primo piano«Cazzo!» dico incredulo, e con gli occhi sgranati resto a osservare quel corpo di nessuno che diviene un simbolo per molti.

Ripenso agli anni passati, al tempo in cui vivevo con i miei. Rivedo mia madre, quando partivo per un viaggio. Ogni volta mi guardava come se fosse l’ultima, con la paura dipinta sul volto. E ora, quante madri si staranno tormentando? Le immagino a supplicare il Signore. A pregare perché il ragazzo sullo schermo, non sia lo stesso che pochi giorni prima  si è chiuso la porta alle spalle, dicendo: «A presto».

Eppure, tra le tante, ce n’è una che il figlio l’ha perso davvero. Forse, se potesse, non la toglierebbe mai la maschera al milite ignoto.

Ora cosa importa a quale gruppo si appartiene? Si sono spenti i bollori di poco prima. Un turbine di violenza ci ha riportati nel mondo reale e i giochi sono finiti tutt’a un tratto. Provo uno strano senso d’amarezza in quest’istante, ma dopotutto che importanza ha? Un colpo di telecomando e tutto cesserebbe di esistere. Basteranno pochi giorni, perché di quel ragazzo, che la pelle ce l’ha lasciata, non gliene freghi più niente a nessuno. A piangerlo saranno solo amici e parenti. D’altronde è così che va il mondo, le notizie corrono e bisogna stare al passo coi tempi, altrimenti ti perdi. Anzi! Meglio girare prima che cominci “Beautiful”, altrimenti mia moglie chi la sente?

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